C’è sempre una prima volta, si sa. La mia con i vini di Trinoro (e indirettamente col loro autore, Andrea Franchetti) risale a un bel po’ di anni fa, e a una degustazione francamente sui generis (e anche per questo memorabile) all’allora Simposio, wine restaurant annesso all’enoteca Costantini, una delle storiche di Roma. A condurla nel suo modo peculiare, e a convocarci, era stato un personaggio speciale come Gelasio Caetani Lovatelli, parente/amico del produttore, oltre che singolare (unico, direi, nel suo genere) eno-comunicatore. A rendere ancor più speciale il tutto, lo scenario che c’era dietro a quell’appuntamento: una sorta di Risiko del vino europeo legato a intrecci e ramificazioni dalla quasi insondabile (per me, ma per la quasi totalità dei presenti, credo) complicazione tra famiglie di millenaria e intricatissima storia da cui tutti i protagonisti della faccenda in qualche modo discendevano, e che traversava Italia, Spagna, Ungheria, Danimarca… Il risultato, di enorme seduttività e attrazione per chi all’epoca si muoveva nell’allora piccolo mondo della critica enologica carico dell’entusiasmo ai limiti dell’euforia del periodo (quello della rinascenza prepotente del vino italiano e di una wine passion conseguente bruciante, globale e affamata di scoperte), era la possibilità, offertaci quel mattino, di assaggiare in parallelo tre annate di due vini pressoché fantasmatici e al tempo stesso già celebri. Uno era il Trinoro, appunto, raro in Italia perché venduto al 90% all’estero (Franchetti aveva catturato e assimilato a Bordeaux, eno-terra del suo cuore, il modo di far vino, e sempre a Bordeaux e negli snodi della rete di cui sopra aveva trovato chi glielo vendesse, anzitutto in Inghilterra, come tutti i “clarets” di rango) e che era poi comunque segnato da un prezzo per boccia, sulle centomila lirette d’allora, non agilissimo da affrontare. E l’altro era Pingus, pure re dei prezzi (insieme al Vega-Sicilia, ma tanto originario e territorialmente seminale quello, quanto moderno e rampante questo competitor inventato da un danese sbarcato in zona, Peter Sissek) della Ribera del Duero spagnola, ardua terra da vino disposta attorno a Valladolid e imperniata sulla varietà Tempranillo. Di Pingus si sapeva (e favoleggiava) della tecnica “estrema” e lussuosa (e del tutto sintonica col modo di sentire di allora) della doppia barrique: una per fermentarci, alla francese, le uve, e la seconda, dopo travaso, per elevare il vino. La stessa, ci venne detto, adottata per questo figlio delle crete senesi (vicino Sarteano, ben in quota sul versante interno del Cetona, zona pressoché inedita nello scenario del vino importante essendo ovviamente Montalcino il fulcro dell’area limitrofa). Un vino “oltre”, insomma. Come il suo creatore. Del quale tutto quel che sapevo era scritto in un’intervista pubblicata dal Financial Times e firmata dalla mitica Jancis Robinson in cui con franchezza (stimmata del cognome?) addirittura disarmante l’intervistato narrava di una gioventù tempestosa e movimentata, farcita di multiformi esperienze (alcune spinte ai limiti) e poi il ritiro, la svolta e l’ispirazione scaturiti dall’incontro con la terra magica dove aveva iniziato a misurarsi con viti, grappoli, fermentazioni, botti. E, soprattutto, attese. Quelle che la natura e l’anima del vino impongono, senza sconti, a chi se ne occupa davvero.
Una bella bisaccia d’anni dopo, eccoci. A Trinoro. A misurare e assaporare in una serie di calici magnifica (e ripartita per il relativo racconto tra tutti i membri del team di degustazione de L’Espresso presenti, proprio nello spirito con cui assaggiamo e lavoriamo per la Guida) non solo vini lucenti e “parlanti”, testimoni sinceri delle loro annate e delle scelte di chi li fa. Ma un pezzo di storia della nostra vita (parlo in primis della mia generazione, quella marcata dall’esperienza sessantottina e poi a seguire), della nostra professione “nel” vino, e della sua storia moderna in Italia. Il Trinoro non ha più alcun bisogno di essere “oltre”. Come non lo è il suo mentore e creatore. Semplicemente, “è”. Non doppia barrique (posto ci sia mai stata, è concetto lontano) ma legni discreti, bilanciati, amichevoli, e cemento. La complessità prima della potenza. Quella (troverete nell’elenco degli assaggi un vino ben oltre i 16° di alcol) è figlia dei tempi, delle vendemmie, del pianeta che muta e dell’uomo che non se ne cura ancora. E va assorbita, interiorizzata, metabolizzata nell’equilibrio del risultato. Garantito, in una evidente ricomposizione terra-uomo dal netto sapore veronelliano, dalla composta ma acutissima attenzione (più della tensione, che orienta meno e inganna) di chi lo fa. Da Nietzche allo zen il passo è enorme, e insieme breve. Ma la verità è che non serve affondare all’estremo nell’uno né nell’altro, per far bene il vino. Quel che serve davvero è la raggiunta consapevolezza. In questo pezzo bellissimo di Toscana, dove in alta collina con determinazione e certosina attenzione, e senza prescia inutile, Franchetti sta ora esplorando alla grande la chance di lasciar affermare alle sue vigne-cru di Cabernet Franc le possibilità e le diversità che ciascuna di esse ha – mentre orchestralmente continua intanto a comporre anno per anno il blend bandiera aziendale – l’aria che aleggia, anche nell’ospitalità semplice e calda che il luogo e il suo proprietario/custode sanno offrire, è al momento, più che altro, vagamente Tolkieniana. Apparisse, sulle coste del Tenaglia o del Camagi – mentre confronti i due vini seduto, all’aperto, con davanti bottiglie e bicchieri da utilizzare in libertà, senza inutili cerimonie o messe cantate ma in piena sintonia enoica – il profilo trotterellante di Frodo o il fumo azzurrino della pipa di Gandalf, giuro, non ci sarebbe poi neanche troppo da meravigliarsi…
Daniele Moroni – Magnacosta 2015 : da un terreno alluvionale di 0,9 ettari a 450 metri s.l.m. che si è ritagliato uno spazio tra colline di pura argilla nasce il Magnacosta 2015 (100% Cabernet Franc); evidenti note verdi con il peperone in evidenza si fondono con mora, spezie, tabacco e toni floreali. Nonostante la gioventù si intravedono le sue grandi potenzialità, ed il vibrante tannino è accompagnato da una buona sapidità ed un lunghissimo finale speziato. Tra qualche anno darà il meglio di sè;
Maurizio Valeriani – Tenaglia 2015: ancora un cru di Cabernet Franc, che evidenzia nel calice eleganza e profondità di beva. Succoso e speziato, sapido e fresco, dal sorso dinamico e progressivo, ha un lungo finale di spezie e macchia mediterranea e mette in evidenza un frutto croccante e goloso; un grande vino da bere subito;
Stefano Ronconi – Camagi 2015 La triade dei cru di Cabernet Franc si completa con il Camagi che, in questa versione 2015, sembra particolarmente pronto, gli spigoli sono smussati e la tessitura dei tannini finissima; sembra quasi la sintesi dei primi due, con il floreale e le spezie del Magnacosta ad incontrare e mitigare il carattere e la potenza del Tenaglia.
Paolo Valentini – Tenuta di Trinoro 2015: in evidenza una leggera nota alcolica, frutto di un’annata calda, bilanciata però da sapidità e buona tessitura tannica. Piacevole il lungo finale iodato e speziato, che si accompagna a bellissimi ricordi di tabacco e macchia mediterranea;
Gianmarco Nulli Gennari – Tenuta di Trinoro 2013:: dai numerosi assaggi effettuati finora, la vendemmia 2013 in Toscana rischia di entrare nel ristretto novero delle grandi annate: meno estrema delle torride 2011 e 2012, sembra aver dato ai rossi (Sangiovese ma anche vitigni bordolesi) respiro, integrità, tonicità e freschezza, oltre a un tannino che nei casi migliori risulta in perfetto equilibrio. Come in questo Tenuta di Trinoro 2013, che ha ormai quasi digerito il rovere e punta decisamente sull’eleganza più che sull’opulenza. Note silvestri e terrose al naso, ma anche floreali, con un lato minerale e fumé; in bocca il frutto è giustamente maturo, il sorso scorrevole e slanciato, ma non perde in ricchezza di polpa, caratteristica dell’etichetta e della mano del suo artefice.
Gianni Travaglini – Tenuta di Trinoro 2011: colpisce per le due anime che mostra e convivono in una sintesi di grande eleganza e bevibilità. Il Cabernet Franc che al 90% lo compone è figlio dell’assemblaggio dei diversi cru aziendali ed di un’annata complicata, in cui a un prolungato periodo di siccità, che ha generato uve con gran contenuto estrattivo e zuccherino, è seguito un finale di vendemmia con piogge abbondanti che ha rivitalizzato i filari e ridonato freschezza. Al naso emergono d’impatto toni molto fruttati ( piccoli frutti rossi, ciliegia sotto spirito), al limite della surmaturazione, che sfumano poi in sentori floreali. Ma è in bocca che il vino manifesta il suo grande fascino: l’anima calda si traduce in piacevolezza, frutto e struttura ricca e potente; ma tutto è poi fasciato da tannini fini, aromi balsamici di rabarbaro ed erbe officinali in cui il Cabernet Franc ritrova la sua natura più “fredda”. Il mix finale è di grande raffinatezza e complessità, e assimila anche l’elevata gradazione alcolica (16,5°!) senza che ne risentano gradevolezza e profondità di beva;
Carlo Bertilaccio – Tenuta di Trinoro 2009: annata strepitosa. I soliti quattro vitigni del taglio Bordolese con 55% di Cabernet Franc, 30% di merlot, 11% di Cabernet Sauvignon e 4% di Petit Verdot offrono al naso fiori rossi e sentori di macchia mediterranea e di elicriso. Poi un fantastico insieme di succo di melograno, mora e spezie (in particolare cannella) con un tocco di cioccolato precede un finale lungo e fresco con una scia di fragola per mettere in evidenza dei tannini veramente sorprendenti per delicatezza e finezza.
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