La sfida di Martin Foradori: portare in defilé
vini di vendemmie considerate “minori”
Martin Foradori appartiene a quella”razza” di produttori per i quali il lavoro tra vigna e cantina è anzitutto una sfida continua. Alle convenzioni, alle abitudini, a un bel po’ di luoghi comuni.
E anche – diciamolo – al rischio, che palesemente non ama, di essere uno dei tanti, di sparire nella massa, ormai fitta e densa, di aziende e persone che firmano vini e bottiglie. E così, mentre una maggioranza niente affatto silenziosa si affretta a proclamare – un anno sì e l’altro, possibilmente, pure – di aver appena messo in cantina il millesimo del decennio (ventennio, secolo… fate voi), ecco invece il nostro presentarsi all’annuale appuntamento con una fetta di critica di settore – mondanamente battezzata dal protagonista e organizzatore “Salotto” – con una scatola di annate, sulla carta, e ai tempi, battezzate come quanto meno sfigatelle: 2003, 2002, 1992… tutte per diversi (quasi opposti) motivi segnate con lo stimma del non troppo riuscite.
Non a caso, l’idea è venuta a Foradori proprio al termine di uno dei cicli vegetativi più complicati che si siano presentati al viticultore italiano moderno: la 2022, stressata e assetata dalla siccità, in giro per la penisola quanto meno controversa ma – Martin dixit – pronta in Alto Adige e nelle zone migliori a sconfiggere tra qualche tempo le prevenzioni e i pregiudizi, proprio come (ed eccole qua, le prove provate) il Gewürztraminer Kolbenhof Gewurtz 2003 e i Barthenau Vigna Sant’Urbano 2002 e 1992 portati a proscenio per l’occasione.
Anni – attenzione! – non scelti solo per il coefficiente di difficoltà che li ha contraddistinti, e per i giudizi non troppo lusinghieri che li hanno marcati. Ma anche perché di speciale significato nella parabola professionale di Martin, che proprio con il 2022 compie il suo primo trentennio, e dunque proprio nel ’92 aveva visto la luce.
Cominciamo allora parlando proprio del primo vino fatto (e ultimo presentato, nella serata di chiacchiere e calici condivisa a Roma).
Un Pinot Nero di stagione non amica, certo, ma in fondo meno esiziale di quelle troppo soffocanti. Meglio la luce fredda che il fuoco troppo diretto del sole, per quest’uva così particolare. E il ’92, di vitalità ancora palpabile (e avvolgenza morbida, ma senza strappi troppo evidenti alla stoffa setosa d’origine, solo logicamente ammorbidito nei profumi e nel primo impatto) conferma la prognosi. Il 2002 poi racconta due cose: come, appunto, il Noir sappia bene, in fondo, di essere un “nordeno” nell’anima, e come – per Foradori come per tutti – dieci anni di esperienza sul campo aiutino a capire, e a fare sempre e ancora meglio.
Davvero un bel vino, insomma. Fine e pieno, serio e delicato, di stamina non indifferente (è Barthenau…) ma dal gusto affusolato e senza zavorre.
Altro capitolo il 2003 in bianco e spezie targato Kolbenhof. E che è a suo modo la molla che ha innescato l’idea intera della proposta. Proprio i pronostici che si andavano facendo sulla ’22 in corso d’opera, che in tanti assimilavano per andamento (prima dei provvidenziali giorni di pioggia intensa di mezzo agosto) al torrido 2003 ha indotto Foradori a organizzare la passerella. In cui anzitutto al “fratello” di disgrazia toccasse dimostrare che non tutte, alla fine, vengono per cuocere (più che nuocere, viste le temperature…). E il figlio della vigna che gli astuti, raffinati (e non poverissimi) Padri Gesuiti di Innsbruck avevano scelto già dal 1722 come cru elettivo per le bottiglie da importare da quel pezzo felice di sud dell’Impero, digeriti anni e refoli zuccherini, complesso e grasso, aspetta solo l’omaggio di un foie all’altezza per dire ancora la sua.
Foradori può così esser soddisfatto. E chiosare e rivendicare che “fare il vignaiolo non è un mestiere per chi non ha nervi saldi e soprattutto per chi non ha la flessibilità per adattarsi a situazioni nuove“. Esempio adatto ai nuovi assalti del clima? Abbiamo visto come pratiche agronomiche lungimiranti – dalla sfogliatura alla cimatura o la lavorazione del sottosuolo, e soluzioni adottate in vigneto come le reti anti grandine, che proteggono i grappoli anche dall’eccessiva irradiazione solare – permettano alle vigne di soffrire meno le alte temperature e i raggi solari intensi>. E dunque, avanti. Con, oltretutto, novità assolute e ripescaggi nobili. La prima è la ulteriore “specializzazione” all’interno della tenuta Barthenau, che sarà articolata in tre differenti cru, al debutto sul mercato nel 2024, spingendo sempre più sulla identità assicurata dal lavoro in singole, omogenee particelle di vigna (una scelta condivisa, spiega Martin, con suo figlio Niklas, appena rientrato “a casa” dopo sette anni di tour e lavoro esperienziale tra Germania, Borgogna, Oregon, Toscana.
Quanto ai “ripescaggi”, eccoli pronti e presenti: Konrad Oberhofer Vigna Pirchschrait Gewürztraminer Alto Adige Doc 2009, figlio di omonima particella del maso Kolbenhof, vinificato separatamente dal 2006 e lasciato maturare su lieviti fini per 10 anni in botti da 500 litri. Risultato: smaltimento ed elaborazione della componente più “dolce, esaltazione del bouquet, struttura materica di più che logica intensità. Vino di ambizione, proposto in cassetta di legno e soli mille esemplari, va sul mercato a 120 euro al pezzo.
Non meno aristocratico nell’assunto, e persino, se possibile, più ambizioso del cugino in bianco, il Ludwig Barth Von Barthenau Vigna Roccolo Pinot Nero Alto Adige Doc 2015, espressione di un frammento nobile dell’altopiano di Mazon, vigna di 80 anni (a pergola, come regola allora, e battezzata “roccolo” perché qui era sita una postazione di uccellagione) vinificata come unicum dal 2012. Davvero diverso anche dal panorama ricco dei Noir di famiglia, dialettico e intrigante, il Roccolo è a sua volta un guanto di sfida atesino (e più che mai targato Hofstätter) ai piani alti del settore. Viene proposto a 190 euro a bottiglia.
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