Mio nonno materno, sardo di nascita, era un contadino forte fisicamente e di carattere.
Disperso nella seconda guerra mondiale in Grecia e Albania, tornò in Italia mesi dopo la pacificazione.
Lavorò come ottico per il Laboratorio di precisione dell’esercito ma nel 1964 sei mesi prima che nascessi, a 50 anni gli fu diagnosticata un’ulcera perforante e asportato circa il 90% dello stomaco, con aspettativa di vita di circa 6 mesi e invalidità al 100%.
Come prese la notizia? Si dispiacque, mi raccontarono, di non poter conoscere il suo primo nipotino.
Invece mio nonno di cui porto il nome mi ha cresciuto, giacché abitavamo tutti assieme alle pendici non di un vulcano ma di Monte Mario, anch’esso saltuariamente un po’ fumoso ma per via degli incendi che si succedevano, ed è morto a 95 anni mentre disputavo la Maratona di Roma.
Quando si ritirò in pensione il demanio della capitale gli concesse un terreno in prossimità dell’argine del Tevere, in una zona non edificata e isolata di Roma e non del tutto sicura, dove invitava me a non allontanarmi senza spiegare la ragione che compresi da solo crescendo, e che poteva ricordare il luogo delle riprese di un celebre film di Ettore Scola (peraltro sono stato numerose volte anche nel vero set a Monte Ciocci, accompagnato dal nonno che frequentava improvvisati circoli ricreativi per giocare a carte o a bocce). Quasi un rettangolo di duemila metri quadrati che terminava sul greto del fiume al quale non mi potevo avvicinare, dove si recava prima dell’alba per curarne il suolo avendo impiantato di tutto, alberi da frutto, verdure, ortaggi, erbe aromatiche … pensate a una derrata alimentare e probabilmente era presente, alternando le coltivazioni nel terreno e dove ogni cosa aveva il proprio posto. In definitiva fu un antesignano degli orti urbani. Mi portava durante le pause scolastiche e talvolta lo aiutavo nei limiti delle possibilità e capacità, e quando varcavo i due altissimi eucalipto, quasi dei portali d’ingresso della tenuta ero felice.
Purtroppo non ho ereditato la sua abilità, del tutto inidoneo in tali mansioni ho amato fin da piccolo la carta e in seguito la penna, ma è stato proprio in quegli anni che Pan mi ha fatto visita e mi ha parlato, non sapevo che fosse in grado di farlo da ragazzino metropolitano qual ero giacché Knut Hamsun non l’avevo ancora letto, sarebbe stato prematuro farlo, e ho sviluppato l’amore per la Natura.
In quel periodo della mia vita, pur abitando ombreggiato dal Cupolone, ho mangiato ceci freschi direttamente dalla pianta; semi di girasole appena colti; mi arrampicavo sugli alberi dei fichi per coglierne i frutti ingozzandomi fino a star male; i piselli erano deliziosi sbucciati al momento; le fragole occorreva sbrigarsi perché finivano presto; le patate arrostite, bollite, in puré, o per fare gli gnocchi venivano dal suo orto; come le melanzane, zucchine, peperoni ripieni che cucinava mia madre; serbo il ricordo delle fave fresche al primo maggio assieme agli altri familiari; i pomodori da riso erano così grossi che uno sarebbe bastato per saziarsi ma ne mangiavo almeno due, insuperabili come li preparava mia nonna; quelli San Marzano oltre a pezzi in insalata erano cotti per la conserva; gli spinaci erano l’ingrediente con la ricotta dei ravioli a mano eseguiti alla tradizione sarda; broccoletti e cicoria da ripassare in padella; il cavolfiore stufato in tegame in guazzetto con olive; mele, susine, prugne, zucche, finocchi, fagiolini, non ne ero ghiotto comunque arrivavano in casa, come del resto lattuga, meloni, uva da tavola e uva fragola, prezzemolo, basilico, aglio, cipolla e chissà quanto dimentico.
E talvolta anche qualche anguilla che con la barca mio nonno pescava, e che vivente sguazzava nella vasca dove avrei fatto il bagno.
Allevando galline, piccioni e conigli si può dire che dal punto di vista alimentare in casa eravamo quasi autonomi, e l’eccedenza capitava fosse acquistata dal fruttivendolo vicino alla nostra abitazione.
Perdonate il lungo preambolo fuori registro ma è stato il violento ricordo affiorato non appena sono entrato nella dimora de I Vigneri 1435 (data che testimonia l’esistenza della maestranza catanese che educava i giovani agricoltori a coltivare l’alberello, il simbolo aziendale), e iniziato a passeggiare nei campi con Salvo Foti, in un certo senso alimentarMente autonomo.
Ciò che oggi può apparirci strano dimentichiamo che un tempo era la prassi, uno stile di vita agreste abbandonato, irretiti da qualcosa che ci appare con più importanza.
Per rendere indelebile il ricordo dell’esperienza, ho portato con me a Roma (con l’autorizzazione di Salvo) alcuni prodotti qui coltivati: due peperoncini, un pomodoro gigante e un peperone peppone.
La grande differenza con l’orto romano del nonno è che qui a I Vigneri tutto accade sotto la determinante influenza del vulcano, e non uno qualunque, il più elevato in Europa di quelli in attività.
Under Volcano si ha l’impressione che qualunque cosa coltivata cresca ottimamente e che nell’Etna ci sia quell’eccesso di identità tipica dell’isola plurale, come sosteneva in generale per la Sicilia lo scrittore Gesualdo Bufalino.
Un privilegio accordato a chi vive sul versante di una montagna eruttiva, un risarcimento per una sua ipotetica pericolosità.
La cenere è ben visibile sui campi e che sia mescolata o meno al terreno per arricchirlo di quelle componenti che poi nutriranno ciò che vi cresce, come qualcuno in zona è solito fare, comunque la pioggia farà il suo compito.
Avevo incontrato Salvo alcune volte, assaggiato i suoi vini un numero di volte maggiore, ma non ero mai stato in azienda e parlato a lungo con lui, e di questo devo ringraziare Federico Latteri e Cronache di Gusto che mi hanno invitato in questo luogo che più d’un vigneto è un orto botanico. E stando lì ho pensato d’aver trovato in lui un altro baciato da Pan, una persona che custodisce il territorio etneo con la consapevolezza di ciò che sta facendo.
Ascoltando le descrizioni delle specie botaniche presenti all’interno di questo fortino della biodiversità (unica possibilità che abbiamo per sopravvivere), circondato da mura e con la strada che gli gira attorno, camminando nei sentieri a latere dei filari, l’amore per la Natura di Salvo trasluce nella sua interezza. Ad esempio quando illustra la mela gelato cola (il nome è dovuto alla traslucidità del frutto che sembra ghiacciato), considerata da fine pasto per via dell’acidità, una delle quattro varietà rimaste coltivate alle pendici dell’Etna, priva di interesse commerciale che è a rischio scomparsa (ne avrei portato via alcune ma non erano ancora mature);
oppure nel tentare di trasmettere l’intensità aromatica che regala la ginestra aetnensis, tipica di quei luoghi; o infine indicando il murtidda, come è qui chiamato il mirto.
Mi sono sempre trovato bene con i nati sotto il segno del Capricorno, uomini o donne, dinamici e coerenti, certamente testardi ma ciò serve, soprattutto nel lavoro.
Salvo nasce il 4 gennaio di 63 anni fa a Catania, nel medesimo momento in cui Robin Guthrie, leader dei diletti Cocteau Twins, emetteva il primo vagito nella Scozia del mio cuore (un punto in più a suo favore).
Fin da piccolo lavora in vigna e a diciannove anni inizia con l’attività di enologo in Sicilia per aziende etnee, ragusane e trapanesi ora divenute celebri e di riferimento. E poi successivamente c’è l’impegno didattico con stage in Italia e Francia, e le docenze per A.I.S., O.N.A.V., F.I.S.A.R., nonché la scrittura di numerose pubblicazioni sul vino.
Siamo a Milo, il paese di Franco Battiato che quanto a ironia somiglia un po’ a Salvo, sul versante Est dell’Etna in contrada Caselle a 780 metri sul livello del mare. In questo terreno lavico dove la piovosità annua si aggira ai 1500 mm., si trovano la metà dei vigneti aziendali, dove si producono i vini: Aurora, Vignadimilo, Palmento Caselle.
L’altra metà dei filari che completano I Vigneri 1435 sono dislocati nel versante Nord, in contrada Porcarìa, all’interno della contrada più vasta etnea di Feudo di Mezzo nel Comune di Castiglione di Sicilia, a 580 metri e con piovosità dimezzata, circa 800 mm. l’anno, territorio che dà vita ai vini I Vigneri, Vinupetra, Vinupetra vigne centenarie; il terzo appezzamento è nel versante Nord-Ovest, dove nasce il Vinudilice, in contrada Nave nel comune di Bronte, a 1150/1200 metri di altitudine e con apporto piovoso di 1100 mm. Complessivamente poco più di sei ettari vitati con il sistema tradizionale dell’alberello etneo, che collocato in maniera armonica ed equidistante esclude quasi completamente l’ombreggiamento tra pianta e pianta, e consente d’avere la massima esposizione ai raggi solari diretti e da quelli indiretti provenienti dalla rifrazione del terreno.
Nelle tre zone si coltiva Carricante, Nerello Cappuccio, Nerello Mascalese, Grenache, Minnella bianca e rossa, Grecanico, per i vini cosiddetti base. Poi a Milo e a contrada Nave ci sono due campetti sperimentali dove dimorano Savagnin di Jura impiantato nel 2008, oltre a Riesling, Chenin, Pinot Bianco, Gewurztraminer, e infine dei vitigni Piwi (tra i quali il Solaris i cui risultati non hanno soddisfatto Salvo).
La mancanza di sole, e in parte l’umidità presente (durante la nostra visita non v’è stata eccezione) sono le ragioni per cui a Milo si coltiva il Carricante, alimentato da un suolo ricco di silice, ferro e magnesio, responsabili della mineralità e della forte acidità anche malica che si riscontra nei vini; non dimora qui il Nerello Mascalese, definito ironicamente da Salvo un tipo da spiaggia, che avrebbe sofferto a tale altitudine non riuscendo a maturare bene.
Ricordiamo che esclusivamente nel Comune di Milo si può produrre l’Etna Bianco Superiore, con Carricante minimo dell’80%, tuttavia le condizioni idonee si sviluppano solo in altitudini simili a quella in cui ci troviamo, come Salvo non perde occasione di evidenziare, mentre i vigneti dell’area interessata dalla doc con la menzione di Superiore partono già a 400 metri, con il conseguente paradosso che non è consentito a comuni poco distanti, come Zafferana Etnea e Sant’Alfio, in vigneti di pari rilievo di 7/800 metri, pur trattandosi di luoghi dove si avrebbero risultati analoghi.
La prima annata de I Vigneri è la 2001, vini con fermentazione spontanea, da lui chiamati “vini umani“, definizione coniata per differenziarsi da altre che non solo hanno perso ogni significato ma hanno fatto dell’ortodossia il principio fondante. Qui come detto e vedremo si sperimenta e rispetto a ciò l’ortodossia è al suo zenith. L’azienda ha la certificazione sostenibile Viva, e una conduzione che è un tantino oltre al biologico, potremmo dire ancestrale, che segue l’andamento lunare e adopera per concime il letame ovino, e dove si lavora da sette anni sugli induttori di resistenza, un trattamento quasi omeopatico che interviene prima e dopo sulla pianta, in modo da sviluppare gli elicitori per combattere malattie quali peronospora e oidio. Questi trattamenti sono progressivamente aumentati a causa dei cambiamenti climatici, innegabilmente avvenuti (e non è tutto: l’incremento dell’umidità in corso sta sviluppando un’altra malattia della vite molto grave perché se trascurata porta alla morte della pianta: il mal dell’esca), passando dai tre iniziali a dodici, anche quindici per vendemmia.
All’interno della casa c’è, antecedente la sua costruzione, un palmento (vige qui il detto Il palmento fa la casa, ma la casa non fa il palmento), ovunque presenti sull’Etna, datato 1840, un museo ma produttivo, in pietra lavica che sfrutta l’antico sistema della gravità e la pendenza del terreno per il transito del mosto e del liquido senza utilizzare macchinari.
Un corridoio in pietra dal sapore medioevale ci porta alla cantina sottostante dove si trovano le botti, di grandi dimensioni, tonneau e barrique, ed esperimenti con legni vari non di rovere.
Oltre a queste, un paio di anfore georgiane che gli sono state regalate da un produttore, interrate e rivestite di tasselli di vetro colorato trovato in Istria, tipo una piscina dice Salvo cui il senso dell’humor continua a sorprendermi, e adoperate solo per stoccaggio.
Per produrre circa 50.000 bottiglie l’anno per sette etichette, Salvo ha l’aiuto dei figli Simone (30) e Andrea (26), e dato che abbiamo scherzato sui segni zodiacali, diremo inoltre che sono entrambi del Sagittario (l’importante è che siano nati dopo la vendemmia, dice proseguendo con l’ironia il padre). Andrea si occupa del laboratorio situato in loco dotato di microscopio elettronico per tenere sotto controllo la vinificazione: sarebbe tutto molto più semplice utilizzando i lieviti selezionati dall’uomo e al contempo un vino meno umano.
LA DEGUSTAZIONE
Giunge un momento topico nella vita di ogni viticoltore con prole, in cui i figli, se lavorano in azienda, vogliono fare il proprio vino. Molto spesso i risultati sono differenti dal solco tracciato dal genitore che paziente e silenzioso lascia fare, e non potrebbe essere che in tale maniera.
Proprio con l’idea di vino di Simone e Andrea è iniziata la degustazione che ci attendeva.
Primavera 2024 11.5%
Il nome deriva dall’essere la prima vera vendemmia dei figli di Salvo.
Il vino è composto da Savagnin, Pinot Bianco, Riesling, Carricante, Traminer e Chenin, un melting pot di vitigni autoctoni e alloctoni dove però è l’Etna a dare la sua impronta (come Federico Latteri fa saggiamente notare), sovrastando l’aromaticità che hanno alcuni di essi la quale non si avverte a vantaggio della mineralità regalata dalla Montagna di fuoco. Affinamento di sei mesi in tonneau di rovere francese di secondo passaggio. Solo una filtrazione grossolana per le 1200 bottiglie prodotte.
Il vino è succoso, con sentori fruttati e di uva spremuta, di evidenza minerale e con note gessose.
Al palato il sorso è in tensione, regalandoci un vino di pronta e gradevole beva, tagliente con un finale dove torna il succo d’uva.
Aurora 2024 11%
Il nome Aurora non riguarda la fase crepuscolare della giornata ma è la dedica a una farfalla tipica etnea dal nome di Anthocharis cardamines, rappresentata in etichetta e in via d’estinzione (a suggellare l’amore verso la Natura di cui abbiamo scritto sopra). Fermentazione con pied de cuve di lieviti autoctoni per la durata di 15/20 giorni. Travasi e imbottigliamento seguendo le fasi lunari. Affinamento di 6 mesi in acciaio, e per circa un 20% in legno. Carricante 90% e Minnella bianca 10%. Prima annata in commercio il 2013. Attualmente sono prodotte circa 10.000 bottiglie all’anno. È un vino che esula dalla doc per via della sua bassa alcolicità (la doc Etna Bianco impone un minimo di 11.5%).
È un vino dall’olfatto delicato nelle sue note di agrume citrino e fruttato di pesca bianca, sensazioni floreali, dove emergono i fiori d’acacia, e con un tono lievemente tropicale, su uno sfondo di sentori minerali lavici.
Al palato si presenta nella sua percepibile freschezza e sapidità, con pietra focaia, sorso teso e succoso, e un finale citrino ben persistente integrato da note di erbe aromatiche mediterranee.
Les Étrangers 2024 12%
Si tratta di un prodotto che esula dal core range aziendale, un vino sperimentale etichettato in appena 300 bottiglie, a base di Savagnin.
All’olfatto rimango esterrefatto (perdonate la rima) rigirando la bottiglia alla ricerca di uno scherzo in essere e trovare la dicitura Pouilly Fumé. Infatti, le note che mi arrivano sono peculiari di questo vino francese, minerale, con pietra focaia, intensamente citrino, e la percezione per l’appunto affumicata presente in un vino che è integrato e coerente.
Il palato è succoso e minerale, sapido e con acidità citrina, e un finale molto lungo dove emerge un fruttato di mela.
Vinudilice 2024 vino rosato 12%
L’unico vino provienente dal versante Nord-Ovest, da un vigneto con altitudine di 1200 metri, certamente il più elevato dell’Etna, è un rosato composto di dieci vitigni a bacca e bianca e rossa raccolti e vinificati assieme, con i principali che sono Grenache, Minnella Nera, Grecanico, Minnella Bianca. Fermentazione con pied de cuve di lieviti autoctoni per la durata di quindici giorni, travasi e imbottigliamento seguendo le fasi lunari e laddove il vino abbia delle difficoltà legate all’annata e non raggiunga la gradazione alcolica minima dell’11%, viene spumantizzato. Affinamento in serbatoio di acciaio per 5 mesi. È uno dei vini storici de I Vigneri, la cui prima annata è la 2006, mediamente prodotto in 3.000 bottiglie.
È un olfatto soffice e lieve quello che ci attende, con note floreali di petalo di rosa e di piccola frutta a bacca rossa dove spicca il lampone e la fragolina acerba di bosco. Né mancano toni di mineralità.
Al palato è dotato di un corpo di tutto rispetto, si mostra deciso e glicerico, elegante nel sorso, dove ritornano i frutti rossi e una caramella alla ciliegia, e con una persistenza non trascurabile votata al minerale.
Etna Bianco Superiore doc Vigna di Milo (contrada) Caselle 2022 12%
Carricante in purezza, in parte proveniente da viti a piede franco, da una piccola parcella dove Salvo Foti ha condotto una particolare selezione massale. Fermentazione con pied de cuve di lieviti autoctoni per la durata di 15 giorni in botti di legno da 2000 litri e affinamento di un anno in botti da 2500 litri. Primo anno di produzione il 2011, per un vino mediamente realizzato in 4.000 bottiglie.
L’olfatto celebra la frutta secca con sentori evidenti di mandorla, che avvertiamo anche nel suo equivalente floreale, ma il bouquet è ben più complesso di quanto abbiamo iniziato a descrivere, con percezioni fruttate e agrumate, il floreale prosegue con i fiori di campo, e infine giunge una sequela di erbe aromatiche mediterranee tra le quali pensiamo di riconoscere il timo. Un vino di considerevole interesse per le note finali minerali, di pietra focaia e d’idrocarburo, di TDN (per i più esigenti il 1,1,6-trimetil-1,2-diidronaftalene).
Salvo spiega agli astanti che l’annata 2022 è stata particolare, priva di acidità malica.
Il sorso è gessoso e glicerico, con ritorni freschi e minerali, e un finale persistente dove torna la prima impressione di frutta secca, quindi decisamente ammandorlato a cui si aggiunge la nocciola, e sorprendentemente (almeno per chi scrive) con suggestioni di miele di castagno.
L’apertura dell’Etna Bianco Superiore doc Vigna di Milo Caselle annata successiva 2023, ha evidenziato a nostro parere un vino nettamente più fresco, ma al contempo morbido e più pronto alla beva.
I Vigneri Rosso 2024 vino da tavola 14%
Altro vino storico de I Vigneri la cui prima annata è il 2005, proviene dal versante Nord con vigneti a 580 metri ed è composto da Nerello Mascalese al 90% e Nerello Cappuccio per il 10%. Macerazione con le bucce e raspi per otto giorni e fermentazione spontanea (le uve non diraspate sono pigiate al modo tradizionale con i piedi). Affinamento di sei mesi in anfore di terracotta interrate. Produzione annua attorno alle 10.000 bottiglie.
Apprezzabile nota che definirei croccante, legata a frutti rossi fra i quali s’individuano la ciliegia amarena, i lamponi, se vi sono dei mirtilli sono rossi, e in generale la frutta di bosco, con sensazioni minerali che oramai sono una costante di questi vini, e qualche spezia morbida.
Al palato troviamo un tannino setoso, la beva è piacevole, scorrevole e affatto banale, con una buona struttura del corpo e altrettanta persistenza.
Etna Rosso doc Vinupetra 2023 13.5%
Questo vino prodotto in un terreno pieno di pietre proviene dal versante Nord, alla stessa altitudine di 580 metri del precedente ma da un vigneto ultracentenario in parte reimpiantato nel 2005, ed è a base di Nerello Mascalese 80%, Nerello Cappuccio 10%, Grenache, e altri 10%. Nella pigiatura delle uve il 30% di queste è con i raspi e la macerazione con le bucce avviene per non meno di 15 giorni in tino di legno da 2500 litri con pied de cuve dei lieviti autoctoni. Affina in barrique e tonneau da 500 litri per un anno. Si tratta del primo vino prodotto in azienda nel 2001, con una media di 3000 bottiglie annue.
All’olfatto è molto intenso, con sentori di frutta di bosco a bacca rossa, ciliegia, e frutti a drupa come prugna, e un corredo speziato orientale (qualcuno ha detto cardamomo?), e di erbe aromatiche mediterranee come mirto, timo, elicriso. L’intriganza minerale non consente che ci si scordi il luogo in cui ci troviamo.
L’ingresso al palato è fresco, minerale, vulcanico, con ritorni di frutti rossi, provvisto di buon corpo, equilibrato, scorrevole e di ottima persistenza, dove torna nuovamente il lato minerale.
Durante il volo di ritorno mi hanno cambiato di posto per due volte: all’imbarco sono spostato in trentacinquesima e ultima fila (avevo un biglietto per l’ottava), e poco dopo il decollo spedito a metà aereo per riunire una coppia che a star separata soffriva (con grande plauso dell’hostess per la buona azione compiuta e non altrettanto di chi si è dovuto alzare per farmi arrivare al sedile centrale), ma l’unica mia preoccupazione era la valigia che proseguiva ad essere spostata contenete il piccolo bottino dell’orto: è giunto sano e Salvo (come il suo coltivatore) a Roma, ed era tutto incredibilmente saporito.
Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.
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