Quando nel lontano 1987 ci siamo innamorati dei vini valtellinesi, della sua terra e della sua gente, innanzitutto il Valtellina Superiore era una DOC e le sottozone erano quattro: Inferno, Sassella, Grumello e Valgella. L’ultima e quinta riconosciuta nel 2002 quando si era già in regime di DOCG è stata Maroggia, la più occidentale della valle, che inizia dalla parte ad ovest del comune di Berbenno per arrivare a Buglio in Monte; la più esigua di dimensione con i suoi 25 ettari totali (un quinto della più celebre Sassella) su pendii da 270 ai 550 metri; la più ignota tuttora.
Confessiamo d’avere qualche difficoltà ad accettare il termine di “sottozona”, sebbene sia universalmente approvato nel mondo enoico, poiché ci sembra linguisticamente sminuente. Con tutta probabilità nei prossimi anni avverranno delle importanti novità sul disciplinare del Valtellina Superiore, e staremo a vedere cosa accadrà nello specifico e se accontenterà tutti gli attori. Per quel che concerne il Maroggia, lo abbiamo sempre considerato un misterioso episodio, un vino principalmente conosciuto in loco per essere ottimo per compostezza di beva, da vendere non imbottigliato e, eccettuate poche deroghe, pressoché inesistente nei scaffali delle enoteche. Una denominazione quasi sulla carta, che ha avuto un limitato esprit vital negli anni successivi il riconoscimento per passare in seguito a un progressivo abbandono del già esiguo interesse. Ad oggi, su circa 140 produttori di vino esistenti in Valtellina, per enumerare le cantine che etichettano il Maroggia è sufficiente una mano (e forse avanza un dito).
Una di queste, giovanissima per la concezione in bottiglia ma con una lunga tradizione di vendita di vino sfuso, l’abbiamo visitata in una piovosa mattinata di inizio settembre. L’esiguità della proposta della denominazione ci porta a sostenere che Maroggia vive e sopravvive soprattutto grazie a questa recente realtà, malgrado sia un aneddoto con ridotte quantità.
Bianchi Fanciulli sarebbe comunque un bellissimo nome di fantasia per un’azienda vinicola, anche se non fosse il cognome di Paolo che rappresenta la quinta generazione della produzione di famiglia. L’abbiamo incontrato assieme al padre Maurizio (con un passato di tipografo, vicino al presente di grafico del fratello maggiore di Paolo, ideatore del riuscito logo aziendale) artefice della rivoluzione soprattutto in termini di resa per pianta; a Paolo invece il merito d’aver intrapreso la strada dell’imbottigliamento e la missione di non sacrificare più di tanto ciò che avveniva in passato con una produzione legata alla tradizione.
E Maurizio ci ha dichiarato (cosa non sempre scontata) di approvare gli sforzi filiari: riconosco nel Maroggia il mio vino.
Non deve essere per nulla semplice la coltivazione dell’uva a giudicare dalle suggestive foto del colle dove si estendono i vigneti del Maroggia, con pendenze paragonabili a quelle di una pista nera da sci, ma chi frequenta la Valtellina a ciò è avvezzo.
Ci troviamo nei pressi di Buglio in Monte, poco distante dal borgo che dà il nome alla sottozona, dopo aver abbandonato la strada del vino in Valtellina che in un percorso di 67 chilometri di vigneti collega i luoghi di Ardenno e Tirano.
La prima annata etichettata dall’azienda è la 2022, uscita ad ottobre dell’anno scorso per il Rosso di Valtellina denominato Pala, nome dialettale adoperato per indicare la strada in cui si affacciano le vigne, che qui sono a bacca rossa (ovviamente si tratta di Nebbiolo, di montagna si tende a specificare) e si trovano 300 metri di altitudine. Parliamo di una quantità limitata a 1500 bottiglie, destinate leggermente a salire quando alcuni reimpianti saranno attivi.
A febbraio 2025 tocca al Valtellina Superiore Maroggia, sempre 2022, e da vigneti posti a circa 500 metri, appena 1200 bottiglie prodotte che presumibilmente rimarranno tali. Il tutto sviluppato in 0.6 ettari di proprietà, pure frazionati, che non arrivano a 1 ettaro se si aggiungono alcuni vigneti di parenti che desiderano salvaguardarli dall’incuria e dall’imboschimento, ma senza impegnarsi direttamente e approfittando della passione di Paolo.
Il Pala lo avevamo assaggiato sorprendendoci in Valtellina poco dopo la sua uscita, nei primi giorni dell’anno corrente, in un picnic in famiglia con un tempo che dell’inverno aveva ben poco a spartire e la curiosità di chi è rimasto sorpreso dall’informazione data dal commerciante di Morbegno che ci ha venduto la bottiglia: il vino è maturato interamente in botte di legno di castagno. “Ne sei certo?”, gli chiesi alla prima occasione, era morbido e pulito, con un sorso vivo e teso in acidità senza tuttavia eccessi, e una fragolina di bosco matura che invitava alla beva.
In Valtellina il castagno rappresenta la tradizione perché sono gli alberi che principalmente crescono nei monti e nelle colline per via dell’altitudine e i cui frutti arrostiti (chiamati brasché, vale a dire le caldarroste) sono accompagnati alla bevuta del vino medesimo. Ma questo legno per costruirne botti per contenere il vino non lo adopera più nessuno, anzi ci si vanta d’averlo abbandonato, perché… può creare dei seri problemi.
L’esempio che segue lo utilizziamo di frequente per spiegare il concetto e le ragioni del filtraggio a freddo a temperature al di sotto dello zero termico, durante le lezioni sul whisky quando ne siamo i relatori, quindi chi ha partecipato l’avrà già inteso.
Nel 2016 fummo invitati in Giappone da un gruppo di produttori di shochu, il distillato locale. La destinazione principale era l’isola di Okinawa e quella di Kyūshū, che è la regione più a sud dell’arcipelago. Non mancò l’occasione di visitare la capitale nipponica. A Tokyo rimanemmo sorpresi dall’assenza dei cestini per i rifiuti, in città e soprattutto nella metro, e ci spiegarono che dipendeva dall’attentato con il gas nervino Sarin avvenuto nel 1995, attuato da cinque seguaci della setta Aum Shinrikyō. Malgrado i sacchetti che contenevano il gas letale furono depositati dai terroristi nel pavimento dei vagoni nelle stazioni metro più frequentate e forati con la punta di un ombrello, per evitare in futuro il ripetersi della circostanza si decise di eliminare tutti i portarifiuti.
Insomma, una misura alquanto drastica per risolvere un problema, semmai dovesse ricapitare.
Tornando al castagno, qualcosa di analogo è avvenuto in Valtellina.
Questo tipo di legno ha bisogno di essere gestito, diversamente può creare uno sviluppo aromatico negativo, con un’eccessiva amarezza dei tannini e lo sviluppo di sentori sgradevoli. Tuttavia se la botte è sapientemente curata, oltre ad essere un elemento legato alla tradizione locale, circa un rilascio di sapore del legno al vino, il castagno è di fatto neutro, molto meno interventista di quanto avviene con il rovere, consentendo che l’espressione aromatica sia pressoché quella che genera l’uva. Si tratta di un problema legato alla precipitazione e il deposito dei tartrati del vino che nella botte di castagno tenderà a farla marcire. Quindi, in base a ciò che ci è stato detto, basterebbe costante cura e pulizia dei contenitori di legno, anziché per eliminare il problema e semplificare il tutto sostituire il legno in toto.
Paolo interviene periodicamente affinché ciò non accada alle poche botti a disposizione (attualmente sono 5 di varie dimensioni, inclusa una barrel da 200 litri, e a breve giungerà in cantina la più vasta da 13 ettolitri con 60 anni di età e interamente rigenerata). Circa la permanenza per la maturazione, il Maroggia sosta per due anni almeno, mentre il Rosso di Valtellina Pala minimo 1 anno.
Valtellina Superiore Maroggia 2022 13.5%
Intensità aromatica di piccola frutta a bacca rossa e di quella di bosco, dove spicca la fragolina ben matura e succosa, l’uva spina, e il lampone. Al bouquet si aggiungono dei toni floreali declinati al colore viola, con iris e violetta in evidenza. Suggestioni di sottobosco e una piacevole nota di liquirizia completano il ventaglio olfattivo. Al palato si conferma succoso, con tannini delicati e setosi, il sorso è morbido, un vino gastronomico con una grande beva e non privo di persistenza.
Naturalmente il Maroggia di Bianchi Fanciulli non è né un Sassella, tanto meno un Inferno, è il bello della varietà e qui si gioca su delle morbidezze che se proprio si vuole trovare un corrispondente bisogna andare all’altra estremità della denominazione, cioè il Valgella, pur rimanendo un vino differente. Personalmente ci ha convinto e gratificato, e questa gradevolezza nel bere che fuoriesce da una botte di castagno ci fa rivedere delle posizioni assunte.
Giacché solo gli stolti non cambiano mai parere.
Pino Perrone, classe 1964, è un sommelier specializzatosi nel whisky, in particolar modo lo scotch, passione che coltiva da 30 anni. Di pari passo è fortemente interessato ad altre forme d'arti più convenzionali (il whisky come il vino lo sono) quali letteratura, cinema e musica. È giudice internazionale in due concorsi che riguardano i distillati, lo Spirits Selection del Concours Mondial de Bruxelles, e l'International Sugarcane Spirits Awards che si svolge interamente in via telematica. Nel 2016 assieme a Emiko Kaji e Charles Schumann è stato giudice a Roma nella finale europea del Nikka Perfect Serve. Per dieci anni è stato uno degli organizzatori del Roma Whisky Festival, ed è autore di numerosi articoli per varie riviste del settore, docente di corsi sul whisky e relatore di centinaia di degustazioni. Ha curato editorialmente tre libri sul distillato di cereali: le versioni italiane di "Whisky" e "Iconic Whisky" di Cyrille Mald, pubblicate da L'Ippocampo, e il libro a quattordici mani intitolato "Il Whisky nel Mondo" per la Readrink.
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